26 gennaio 1943, il Battaglione “Verona” a Nikolajewka

0

Alle prime luci del 26 gennaio 1943, il Battaglione parte da Terinkina diretto a Nikolajewka, che si sa fortemente presidiata dai Russi, decisi a fermare per sempre la colonna della Tridentina nella sua marcia verso ovest e verso la salvezza. Le condizioni atmosferiche sono buone, ma il freddo è molto intenso.Dopo un’ora circa di faticoso cammino nella neve ghiacciata, si giunge al culmine di un vasto mammellone che degrada dolcemente verso un avvallamento, dall’andamento trasversale rispetto alla nostra direzione di marcia. In fondo all’ampia china nevosa corre un terrapieno ferrovia­rio protetto da staccionate para-neve, lungo il quale si nota verso destra, un sottopassaggio; al di là della scarpata vi è un breve tratto completamente gelato e poi il terreno sale lievemente verso un grosso abitato, al centro del quale troneggia una grande chiesa con le classiche torri campanarie con cupola a cipolla. Verso sinistra, oltre la linea ferro­viaria, si nota un grosso fabbricato in muratura di mattoni rossi costi­tuente la stazione ferroviaria.Tutti gli uomini validi del Battaglione, con tutte le armi disponibili, vengono riuniti in un solo reparto affidato al comando del Tenente Donà, unico comandante di Compagnia ancora incolume; si tratta di circa duecento uomini tra i quali vi sono gli addetti ai comandi, molti conducenti senza quadrupedi, attendenti, portaordini ed appartenenti alla 113″ Compagnia A.A. ed alla Compagnia Comando Reggimentale. Il Comandante del Battaglione concorda con gli altri ufficiali superiori presenti il piano di attacco. Scrive Enno Donà al quale fu affidato il comando dell’azione condotta dal Verona:

Fummo sorpassati da una slitta sulla quale viaggiavano il Comandan­te del Val Chiese Ten. Col. Chierici che noi chiamavamo famigliarmente il “vecchio» ed il Ten. Col. Prat, “Felicin» per gli amici. Ero convinto che davanti ci fosse il Vestone, mentre ci accorgemmo di essere in testa a tutti con a fianco solo la 255′ del Val Chiese che aveva pernottato in un gruppo di isbe vicino a noi. La 255′ sfilava sul nostro fianco sinistro a poca distan­za e potei salutare Luciano Zani che trascinava avanti gli alpini con grida di incitamento; anzi ad un certo punto la 255′ ci sopravanzò e pur su altra pista si portò avanti a noi. Ormai non eravamo più delle ombre nella notte perché la luce del giorno aveva vinto il buio ed a est il cielo si tingeva di rosso promettendo un sole pieno in una giornata serena. La marcia di avvicinamento a quel centro che poi sapemmo chiamarsi Niko­lajewka durò circa un’ora, poi ci fermammo. Sul colmo del costone c’era ferma la slitta di Chierici e di Prat. Il maggiore mi chiese di accompagnarlo e ci avvicinammo alla slitta per sentire se c’erano ordini circa la prosecuzione del movimento. Prat stava consultando la carta topografica e ci salutò con un cenno, mentre Chierici ci prese in disparte e ci orientò sugli ordini del nostro Colonnello che, come si disse, stava sopraggiungendo in testa al Vestone. Prat ci informò sulla situazione che si può così riassumere: una cicogna tedesca in osservazione aveva comunicato che il paese di Nikolajewka davanti a noi, in fondo ad un avvallamento, era in salda mano del nemico ed il 6° doveva attaccare perché quella era l’unica via possibile verso l’ovest. Probabilmente sarebbe stato l’ultimo sforzo da fare per raggiungere le linee tenute dai tedeschi e bisognava far presto prima che il nemico riuscisse a porre in atto uno sbarramento efficientemente organizzato. Ordinava pertanto a nome del Comandante la Tridentina di sferrare subito l’attacco con il Vestone al centro, al quale era commesso lo sforzo principale (era il battaglione più efficiente e poteva contare su 600 uomini). La 255′ Cp. era già in posizione di partenza per l’attacco sulla sinistra e sarebbe stata seguita dalle altre due compagnie in arrivo (il Ten. Col. Chierici in quel momento non sapeva che le due compagnie erano state semidistrutte la notte ad Arnautowo). Il Verona doveva estendere l’azione sulla sinistra del Val Chiese per impegnare più forze nemiche che fosse possibile. L’attacco avrebbe avuto l’appoggio dell’aviazione tedesca che con gli Stukas avrebbe provveduto a battere i centri di resistenza russi dato che il bel tempo avrebbe permesso il decollo degli aerei dai campi ormai vicini… Il maggiore mi ordinò di chiamare a rapporto gli ufficiali e con poche parole se la cavò affidandomi la condotta dell’attacco. Poi ci augurò buona fortuna e tornò da Chierici e Prat… Ero l’unico ufficiale di carriera rimasto al Verona; avevo l’onere di comandare un manipolo di superstiti che avevamo tenuto uniti e saldi durante una serie di tremende vicissitudini; non conoscevo la consistenza delle forze russe che erano davanti a noi, anzi mi illudevo che fossero i soli-ti elementi che, dopo una certa resistenza, si sarebbero ritirati. E allora “Avanti, Verona” e che Dio ci protegga! Do gli ordini per la preparazione degli uomini: lasciare tutti i pesi super-flui e portare solo le armi efficienti, riequilibrare le dotazioni di munizioni con scambi tra gli alpini in modo che tutti abbiano almeno due bombe a mano e due caricatori del 91. Poi porto con me gli ufficiali ad affacciarsi sulla conca di Nikolajewka per un inquadramento operativo dell’azione e finalmente vediamo il palcoscenico sul quale il destino ci chiama a recitare la nostra parte di attori secondo una partitura approntata dal volere imperscrutabile di Dio… Il fondale era costituito da due colline rotondeggianti in sommità, poste a semicerchio avvolgente il grosso paese che vi giaceva ai piedi con ottima esposizione a levante. In mezzo alle due colline si notava una depressione, una specie di colle nevoso al quale arrivava una strada battuta in forte salita. Il paese era costituito da un grosso agglomerato di isbe e costruzioni in muratura, rinserrato tra le due colline ed il famigerato terrapieno della ferrovia su una specie di conoide il cui centro di figura era in corri­spondenza del colle sul quale sorgeva una grossa chiesa. Non notai il sotto­passaggio perché spostato alla nostra destra nel settore di attacco del Vesto-ne; da quella parte però si vedeva una grossa costruzione a 3 piani che emergeva dai tetti di paglia delle isbe. La nostra attenzione era partico­larmente attratta dalla fisionomia topografica nel settore dove dovevamo agire. Davanti a noi la lunga barra collinosa, sulla sommità della quale avevamo camminato quella mattina, digradava nella conca tagliata dal terrapieno della ferrovia: era come l’unghia di un grosso pollice puntato al centro del paese e noi eravamo sulla sinistra e non vedevamo cosa succe­deva al centro e sulla destra di tale unghia. Di fianco a sinistra un piccolo avvallamento che risaliva in dolce pendenza non poteva costituire appiglio tattico perché era parallelo alla direttrice di attacco. Davanti a noi, leg­germente spostata sulla sinistra vedevamo la stazione, costruzione di mat­toni rossicci che risaltava nel contesto delle isbe circostanti e nei cui parag­gi si notavano due vagoni merci e una locomotiva. Vicino alla stazione, verso destra, il solito serbatoio dell’acqua in cemento e mattoni dal quale, durante il combattimento, i russi ci annaffiarono di raffiche di mitra­gliatrice. Al di là della stazione un piazzale dal quale partiva un viale alberato risalente fino alla grossa chiesa a cui ho accennato. C’era un silenzio pauroso che disturbava quasi fisicamente.Notai che da molte isbe saliva lento, nella calma atmosfera, il fumo dei camini, segno evidente che nelle isbe c’era gente. Pensai che se i russi ci aspettavano su quel palcoscenico non avrebbero potuto trovare un posto migliore per darci una mazzata mortale. Schiacciata la testa del lungo millepiedi che avanzava da giorni nella bianca pianura, il corpo si sareb­be sfatto e sarebbe marcito da solo.Quella conca chiusa dalle colline poste a semicerchio era un’enorme ton­nara dove eravamo stati spinti da abili puntate sui fianchi ed in coda e dove si sarebbe svolta la mattanza! In quel momento non c’era tempo alle riflessioni. Bisognava agire. Gli ufficiali sono intorno a me a semicerchio e attendono gli ordini. Sono, e li ricordo con cuore grato e commosso: S. Ten. Eros da Ros C.te la 56^, S. Ten. Enzo Longobardi della 56^, S. Ten. Rober­to Mori C.te la 57^, S. Ten. Angelo Bernasconi della 57^, Ten. Emilio Bur­loni C.te la 58^, S. Ten. Riccardo Pessagno, S. Ten. Luigi Bressan della compagnia C.do di Btg., S. Ten. Giovanni Cortellini che comanda la Cp.Com.do Reggimentale data in rinforzo al Verona. Con noi è anche il S. Ten. Borgogno del 2° Art. alpina che avevo conosciuto nell’osservatorio della 20^Btr., sul Don. Lo assegno alla 58^ con Burloni…

Ordini per l’attacco (come li ricordo bene!): – obiettivo principale: la stazione di Nikolajewka – obiettivo eventuale: la chiesa in cima al paese – 58′ avanzata sulla sinistra – 56 “avanzata sulla destra con la Compagnia Comando – 57″di rincalzo – Seguirò l’azione in testa alla 57; aggiungo che gli Stukas tedeschi ci «puliranno” il terreno davanti a noi (ma chi mi ha fatto raccontare quel-la fandonia!). Sulla china pelata e senza appigli non ci sarà la possibilità di effettuare degli sbalzi durante la fase di avvicinamento e quindi l’azione dovrà essere continua e accelerata al massimo. Gli ufficiali dovranno dare l’esempio, stando – sempre per la teoria che dice “meno si sta sotto la pioggia e meno ci si bagna” – in piedi in testa ai loro alpini e non potranno buttarsi a terra. Nessun ufficiale potrà allontanarsi dal combattimento se non su mia autorizzazione e per motivazione comprovata… Partì la 58^ sulla sinistra con in testa il Ten. Burloni unico ufficiale che conoscevo bene perché era stato con me in Albania, seguito da Cortellini con i suoi, partì la 56^ con Da Ros e Longobardi e la Compagnia Comando con i sottotenenti Bressan e Pessagno. Seguivo a poca distanza davanti alla 57^ con alle spalle, ma vicino, il S. Ten. Mori in testa alla 57^. Erano con me il mio portaordini ed il mio inseparabile Cap. Magg. Battistini, colui che mi ha sempre seguito come un’ombra in tutti i combattimenti. Non mi accorsi di essere seguito anche dal mio buon attendente Adelino Belli che aveva sentito il dovere di seguire il suo ufficiale fino alla morte: se me ne fossi accorto in tempo probabilmente l’avrei cacciato indietro… Procediamo decisi ed iniziamo la discesa. C’è un silenzio minaccioso e mi sembra impossibile che i russi non abbiano ancora iniziato il fuoco di sbarramento. Non un colpo e, laggiù nel paese, nessun movimento, tutto e immobile; un’immobilità assurda, fuori dal tempo. Sento solo le grida di incitamento degli ufficiali ed il fruscio delle scarpe trascinate sulla neve. Mi guardo in giro per vedere se tutto procede bene; sembra un’esercitazione fatta in tempo di pace davanti all’osservatorio degli alti papaveri; squadre aperte in fila, uomini distanziati 4-5 metri uno dall’altro. Non sembra una marcia verso la morte ma un addestramento di piazza d’armi. Alle mie spalle il Cap. Liut ha preso posizione con i suoi 47/32 in un piccolo avvallamento proprio di fronte alla stazione, ma praticamente è allo scoperto anche lui ed i russi staranno già “prendendogli le misure”. Non so niente del Vestone che avevo visto venire avanti sul costone e che a quest’ora dovrebbe avere lasciato già le sue basi di partenza.

Guardo l’orologio: sono le 8,05 ed il sole sta già sbucando all’orizzonte.

Tratto da “Battaglione Verona – Cimì” di Vittorio Cristofoletti

Foto:In movimento verso Ovest (foto Roberto Cacchi)